Justice for Floyd

Justice for Floyd

Quando una persona non esiste oltre il suo corpo

Nelle ultime ore la notizia ha fatto il giro del pianeta per cui riassumerla potrebbe apparire superfluo, ma a futura memoria faccio un breve recap per ricordare da dove partiamo.

Lunedì 25 maggio 2020 a Minneapolis una persona di nome George Floyd viene fermato e ammanettato da quattro poliziotti sopraggiunti sul luogo per una chiamata riguardo il tentativo di utilizzo di un documento falso o di una banconota falsa (le fonti sono discordanti).
George, seduto nella sua auto con degli amici, viene fatto scendere dai poliziotti e ammanettato. Una prima versione lo indica sotto effetto di stupefacenti e che oppone resistenza all’arresto. Fin qui il racconto verbale.
Ora, la situazione vuole che una persona, tra i testimoni dell’accaduto, riprenda la vicenda per intero. Questo video, incrociato con quello di una telecamera di sorveglianza, mostra quanto sto per scrivere; particolare non di poca importanza, mostra come Floyd non abbia MAI opposto resistenza all’arresto.
Ammanettato, Floyd viene spinto verso una delle auto dei poliziotti e obbligato a terra da un “poliziotto” di nome Derek Chauvin, già noto per aver avuto diversi richiami disciplinari a seguito di atti di violenza, alcuni culminati anche in conflitti a fuoco (in un caso anche mortale).
Chauvin lo tiene immobilizzato con un ginocchio sul collo, mentre Floyd implora pietà, chiede di non essere ucciso, ripete più volte di non riuscire a respirare (“I can’t breathe”); negli ultimi istanti di vita, invoca sua madre.
Questo perché George Floyd, a 46 anni, viene ucciso.

George Floyd era afroamericano.
Questa sembra, ad oggi, la sua colpa. Non è la prima volta (purtroppo) che dagli Stati Uniti ci arriva la notizia di casi di violenza razziale. Quella statunitense è una società particolare, che in alcuni casi non riesce ancora a digerire la sua secolare multiculturalità.
A seguito di eventi come questo sono arrivate sempre ondate di protesta, ma qualcosa stavolta è diverso. Le ultime parole di Floyd, “I can’t breathe” diventano uno slogan attorno al quale in poche ore si raccolgono migliaia di persone, anche nomi famosi del mondo della musica e dello sport.
Gli hashtag #justiceforfloyd e #blacklivesmatter inondano il web, Minneapolis è preda di disordini (per almeno tre giorni, data in cui scrivo), edifici vengono dati alle fiamme, le proteste dilagano in tutto il Paese.

Perché una risposta così forte?
Da un lato, sicuramente, perché la morte di Floyd oltre che assolutamente inutile rappresenta, da sola, una storia incommensurabilmente triste. Gli occhi si riempiono di lacrime al pensiero di questa persona che, impotente, ha tra gli ultimi pensieri quello di chiamare sua madre. La rabbia è una risposta pericolosa ma coerente col pensiero che nessuno, per nessun motivo, debba trovarsi nella posizione di implorare pietà a un suo simile.
Figuriamoci, poi, da qualcuno che dovrebbe tutelarne la sicurezza e il diritto alla vita armoniosa e che invece scava nella parte più oscura di sé per sfogare il suo sadismo in un delirio di onnipotenza che tanto delirio non è; al momento infatti Chauvin è stato solo licenziato. Il perché non sia quantomeno in galera, è una domanda che si pone persino il sindaco di Minneapolis, a cui tristemente non riesce a dare risposta.
Dall’altro lato, questo crudele sadismo ha colmato una misura dalla quale finalmente non si tornerà indietro, segnando uno spartiacque dalla situazione di cocente omertà riguardo le violenze a sfondo razziale nell’ambiente della polizia statunitense (e non solo). Questa misura si è colmata non solo nelle persone afroamericane ma, come le proteste di queste ore dimostrano, in una sana trasversalità che vede moltissimi impegnati per il riconoscimento del diritto “alla normalità” (e alla vita) di chiunque, senza alcuna distinzione. Potrebbe essere un buon momento per gli Stati Uniti di chiudere una volta per tutte la porta in faccia ai violenti nelle forze dell’ordine.

Credits: Carlos Gonzalez/Star Tribune via AP

Cosa c’entra con Younalogue?
Arriviamo alla ragione di questo post. Ho usato, nel raccontare sopra le premesse di quanto stia accadendo in queste ore, parole in cui non mi riconosco (come l’attributo “razziale”) ma che al momento mi trovo a usare per semplificare il dialogo.
Fatta questa precisazione, ne scrivo su Younablog perché questo è un luogo nel quale si parla, ci si confronta e si immagina attorno al corpo.
La morte di George Floyd è avvenuta per quell’orribile approccio disumano del pensiero razzista in base al quale una persona non esista oltre il suo corpo.
Quando la tua pelle non è del colore “giusto” nell’osservatore xenofobo cessa la valutazione della tua persona in quanto complessità di esperienze, pensieri, idee ed emozioni (da ascoltare, rispettare e anche sanamente contestare nello spirito di mutua crescita); non puoi esistere oltre il tuo corpo, oltre i tuoi lineamenti, oltre il colore della tua pelle.

La violenza razzista è, in prima istanza, una violenza che riguarda il corpo.

In assenza del corpo, perde la sua immediatezza: l’associazione persona-xenos fatica a emergere; servono altri dati che potrebbero non arrivare mai. In presenza del corpo, la persona diventa immediatamente xenos e il suo corpo diventa la sua intera rappresentazione.
Un corpo che può venire legato, umiliato, torturato e ucciso impunemente perché sbagliato.
Lo xenos più diffuso è sicuramente quello dello straniero riconoscibile dal colore della pelle o dai lineamenti, ma tutto ciò che riguarda il corpo può diventare lo “straniero riconoscibile”: l’altezza, il peso, il colore dei capelli (come i ginger bullizzati negli Usa), le formazioni somatiche non-canoniche, le manifestazioni fisiche di para-abilità. A volte è soltanto questione di gusto dell’osservatore xenofobo.

Per Younalogue, il corpo è importante. Il corpo è ciò attraverso il quale viene fissato su pellicola il racconto emotivo delle persone che partecipano nel determinato lasso di tempo dell’incontro fotografico.
In questo senso, il corpo è qui fondamentale. In senso più ampio il corpo è invece inutile. E’ inutile ai fini della determinazione di ciò che sia giusto e sbagliato, nella valutazione della complessità di una persona, finanche nella scelta dei propri partner. E’, da un punto di vista reale, inutile.
Il corpo è importante solo per chi lo abita poiché il suo corretto mantenimento, la sua presenza nel mondo, sono appunto il mezzo attraverso il quale tale persona vive e agisce (nel bene e per il bene di tutti, si spera). Tale corpo, un osservatore esterno non dovrebbe rivestire di alcuna importanza, se non in un ridotto numero di ambiti come ad esempio quello medico.
Da questo spirito nasce anche l’ingenuità con la quale scatto le foto di Younalogue, la disponibilità a lasciarmi guidare e trasportare visivamente sul corpo de* partecipant*, raccontato con il linguaggio che soltanto a loro appartiene. Mi astraggo, in questo senso, da qualsivoglia forma di valutazione somatica.
In questo modo l’osservatore cessa di esistere e nella storia resta “solo” un corpo in quanto strumento di espressione del sé: la persona si fa corpo e il corpo si fa racconto. Visti da qui, tutti i corpi hanno il medesimo diritto di esistere e di essere raccontati. Gli xenos non esistono, rimangono un costrutto mentale retaggio di epoche in questo senso molto perfettibili appannaggio, si spera, di sempre meno individui.
Younalogue si unisce così al grido di #justiceforfloyd perché un corpo ucciso è una storia che si chiude con il più ingiusto dei finali possibili. Non importa quanta distanza spaziale ci sia da questo corpo; condividiamo la stessa esperienza del reale e quindi siamo, e saremo, sempre vicini e uniti.
La condanna dell’omicidio di George Floyd è ferma e spero che venga portata avanti la giustizia umana.

Il corpo non può essere una condanna a morte.

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Questo articolo ha ricevuto 1 commento

  • […] In Italia si torna a discutere di catcalling a seguito delle grette esternazioni di un individuo del quale non farò il nome, finito -giustamente- nell’occhio del ciclone per la sua esposizione mediatica.Non starò qui a sottolineare il fatto che tale individuo diverse volte in passato si sia già reso foriero di messaggi antisociali, con primo fra tutti un fortissimo accento razzista, e che solo ora si arrivi a indicarlo finalmente per quello che è: un uomo dalle opinioni inutili pubblicamente, perché le opinioni non sono i pensieri maturati nel tragitto casa-lavoro ma costrutti mentali sviluppati in anni di pensiero, studio e confronto. Perciò laddove un’opinione rappresenti sempre uno scambio in un contesto privato o comunque strutturato per questo stesso scambio, diventa inutile e pericolosa sul palcoscenico della propaganda (oggi socialmente disponibile a chiunque abbia accesso all’Internet); questo è il primo aspetto su cui riflettere quando ad aprire bocca è una persona chiaramente, manifestamente e purtroppo orgogliosamente retrograda; la comunità ha già giudicato però le parole di quest’uomo a-cognitivo, che di fronte alla perdita di follower (carburante della serotonina) ha capitolato dal difendere la sua posizione accorandosi in scuse -che trovo peggiori dell’affermazione in questione perché è una colpa imperdonabile quella di emettere giudizi senza conoscenza, e allora preferisco un retrograde convinto a un bullo impreparato.Su Younablog però parliamo di corpo. Del rapporto tra corpo e socialina avrò modo di scrivere in futuro, su quello tra il corpo e il razzismo di cui non sono mai stati abbastanza imputati questi individui invece ne parlo qui. […]

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