Fotografia fine-art

Testo critico di Silvia Colasanto

John Steinbeck fa pronunciare a un personaggio comprimario di Furore una frase che dall’inizio del dialogo – tra il serio e il faceto, ammetto con tutta onestà – tra me e Marino Festuccia governa i pensieri successivi. Questa frase viene espressa da una donna che aiutata dalla famiglia protagonista si esprime esattamente come segue: “Per noi è un piacere aiutarvi. Era da un pezzo che non mi sentivo così… in pace. Tutti quanti abbiamo bisogno di aiutarci”.

(John Steinbeck, Furore – Edizioni Bompiani, pag. 198)

Younalogue non nasce per aiutare nessuno, in verità. Tutto inizia a prendere forma quando il fotografo recupera nell’abitazione dei suoi genitori vecchi rullini, oggetti analogici di un tempo analogico, lontano anni luce, sembra, da questa nostra vita digitalizzata. Rullini vecchi cui si chiede di assolvere ancora alla loro funzione, pur essendo consapevole che la data di scadenza riportata sulla confezione potrebbe compromettere – o arricchire – il risultato finale del lavoro.

Quale lavoro? Quale soggetto? Quale tematica? Festuccia si era già provato con il nudo. Ma era un nudo estetico ed estetizzante, corpi e pelli resi perfetti dalle luci, dal trucco e dalla post-produzione. Corpi non in vendita ma che sarebbero serviti a vendere, a mostra di sé e delle abilità professionali di chi curava quelle immagini. Corpi oggetto.

Corpi oggetto da cui si frappongono delle distanze pur avendone amate le complessità e le fatiche invisibili dietro quei prodotti commerciali. No, non era ciò che stava rincorrendo né desiderando. All’inizio, guardando quei piccoli contenitori cilindrici, c’era curiosità e forse perplessità; c’era solo un “vediamo che succede”. Ma succede l’imponderabile.

Dal pretesto di utilizzare pellicole scadute si arriva a raccontare una storia attraverso il corpo, più corpi insieme e porzioni di corpo. Perché ogni corpo, come chiarisce il sottotitolo di Younalogue, tells a story. Che può essere d’amore, di malattia, di rinascita o di pura gioia egotistica. Il nudo integrale, condizione necessaria e sostanziale per partecipare alle sessioni fotografiche, diventa il mezzo attraverso cui parlare di se stessi e comunicare le proprie emozioni, spesso timori, o manifestare la dolcezza, il conforto e la felicità che si innescano tra due amanti o gruppi di persone.

Non c’è perfezione e tanto meno non c’è giudizio in questi scatti. Esiste e resiste la tenace idea che ognuno è libero davanti l’obiettivo e nella sua piena autodeterminazione stabilisce cosa mostrare e come. Durante la sessione non si chiede nulla: si ascolta e si conversa, spesso ci si confida (ché il colloquio tra fotografo e fotografat* è indispensabile) ; si scatta, in attesa della giusta connessione e di quell’empatia che permette di mostrarsi per ciò che si è, senza filtri e nel pieno rispetto di sé. Tutto questo emerge e a volte straborda dal risultato così naturale e autentico. Fotoritocchi banditi ma solo camera oscura, acidi e luci basse. L’essenziale ritorna a essere essenziale, in tutti sensi.

L’immedesimarsi così profondamente in Younalogue ha permesso la costituzione di una comunità sempre più attiva e presente in cui si è sviluppato e nel tempo ampliato un confronto inimmaginabile all’esordio dell’idea.

Le comunità, per l’esattezza: la prima e quella più serrata è formata dai soli partecipanti, la seconda è composta da altri fotografi, addetti ai lavori e sostenitori del progetto. Anche questo è un elemento di imprevedibilità: inizialmente Younalogue era sovvenzionato solo dagli sforzi professionali e finanziari di Festuccia, ma cresceva (e continua a crescere), ricevendo dall’esterno sempre più richieste di comparire davanti alla reflex; una condizione, questa, che avrebbe fatto spostare piuttosto velocemente il suo baricentro da Roma a tutta l’Italia e infine all’estero. Diventò chiaro che l’autosostentamento aveva bisogno di altro e altri aiuti per nutrirsi e diffondersi.

Come in un circolo virtuoso, le comunità hanno generato discussioni sempre più incalzanti e di largo respiro, avviando un tam-tam di interesse e curiosità e avvicinando coloro che abbiano vivificato Younalague accogliendolo o anche “solo” comunicandolo.

L’imponderabile, e qui Steinbeck sostiene questa riflessione, arriva quando i grazie dei partecipanti si mostrano nella loro intensità e profondità. Il fotografo che aveva fatto partire questa avventura per esercizio tecnico, sente su di sé i pesi dei Vasi di Pandora che aveva involontariamente scoperchiato e afferra per la prima volta una gratitudine che lo tocca in prima persona.

Tutti o quasi tutti coloro che sono stati ritratti hanno svelato delle fragilità, intime e cliniche, che il corpo ha poi confermato e ribadito anche nel suo orgoglio materico. Come una terapia d’urto i corpi hanno seguito ciò che si è configurato e contraddistinto come un processo di guarigione psicologica.

In un’ottica di economia circolare dei sentimenti, Marino Festuccia ringraziava ma veniva a sua volta ringraziato per aver avviato a sua insaputa un dibattito e una mutazione interna ai corpi non più oggetti ma soggetti di un ascolto e di un’attenzione che il singolo ha ingaggiato con le proprie intimità più recondite uscendone sicuramente diverso, forse migliore, certamente più consapevole.

Tutto questo prendeva forma già dall’inizio quando, aprendo una breve ma dovuta parentesi, la volontà originaria e tuttora corrente e militante non considera alcun eco estetico, ma anzi lo esclude. Lontano da suggestioni iconografiche del passato e del presente, Younalogue vuole solo essere Younalogue, il prodotto di un’idea e dell’interazione tra gli individui che la condividono.

Marino non lo avrebbe potuto pensare e dire prima ma le parole che ha udito, le rivelazioni che ha introiettato e il lascito emozionale che ha assorbito dallo sguardo dell’altro, lo hanno attraversato e cambiato. Quell’empatia carezzata durante i lunghi o brevi dialoghi, atti di fiducia e confessione, in queste foto e in queste narrazioni per immagini trova un sincero riscontro; mittente e destinatario si ritrovano a essere sullo stesso piano con cicatrici e gratitudini diverse. Riappacificati, almeno un po’, con le loro distintive ed esclusive caratteristiche, e riconoscenti per aver avuto un ruolo importante l’uno nella vita dell’altro. Perché aiutare aiuta. E fa sentire in pace.

Maggio, 2020. Grazie a Silvia Colasanto. Se vuoi leggere altri contributi clicca qui.

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