63. The Fox

Quando sono finita per la prima volta sulla galleria di Younalogue alcuni aggettivi molto precisi si sono fatti strada nella mia mente: etereo, spontaneo. Ne ho anche un altro, ma lo lascerò per dopo.

Gli scatti rappresentano corpi fluidi, che esistono all’interno della cornice perché solo così possono essere rappresentati per ciò che sono: corpi. Non sono altro, se non ciò che permettono alle persone di esserci, di esistere, di palesarsi nella dimensione del reale. E non saranno altro che dettagli degli stessi a permetterci di capire cosa significa davvero “esserci”, in questo preciso istante e in questo preciso luogo. Le visioni d’insieme tralasciano informazioni, mostrano ciò che i corpi potrebbero essere, invece di ciò che sono.

E cosa sono questi corpi, se non l’unico luogo che davvero appartiene ad ogni persona? Negli scatti di Younalogue le persone sono se stesse. I loro corpi esprimono soltanto ciò che vogliono esprimere, e per un istante ci si dimentica che di fronte a loro c’era una persona ad immortalarle in un momento astratto — etereo — inserito all’interno della loro quotidianità. Ci si chiede quasi come sarebbe il mondo se fossimo abituati a vedere i corpi nudi, a vederli per ciò che sono, a non attribuire loro un valore che non hanno spontaneamente, ma che soltanto noi abbiamo attribuito loro.

Quindi, i corpi — molto più dei soli scatti — sono eterei perché in uno spazio privo di giudizi e spontanei, perché liberi di essere in uno spazio che è solo loro.

E ora posso finalmente continuare con l’ultimo aggettivo: paradisiaco.

Non che gli scatti siano qualcosa di un altro mondo, o che facciano provare chissà quale beatitudine. È paradisiaco ciò che fa stare come in Paradiso e, nella mia concezione delle cose, in Paradiso ci si sta per contemplare il divino. Ecco quindi che aprendo la galleria di Younalogue io sono rimasta in contemplazione. In contemplazione di corpi. Corpi che non erano né di più né di meno. Forme astratte, che non pretendevano di dire nulla di più di “io esisto”, “io ci sono”; e tu, osservatore estraneo, non puoi che contemplare e ammetterne l’esistenza.

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